L’appropriatezza in oftalmologia

1294
L’appropriatezza in oftalmologia

Si parla e si discute molto di verifiche sull’appropriatezza delle prescrizioni da parte dei medici riguardo agli esami strumentali, con ipotesi di sanzioni più o meno velate per i sanitari che, richiedendo accertamenti od esami inutili, gravassero in termini economici e di risorse sul bilancio del Servizio Sanitario Nazionale.
Tuttavia la cosiddetta “appropriatezza” in ambito medico non è un concetto semplice e di comprensione immediata, bensì appare meritevole di approfondimento e riflessione.
In generale, una cura può considerarsi appropriata quando comporta un beneficio apprezzabile e/o una riduzione del rischio di eventi dannosi per la salute di un individuo.
Va inoltre precisato che l’esame od il trattamento, per essere appropriato, deve essere effettuabile ed effettuato con tempestività, in quanto spesso dilazionarlo comporta comunque danno o rischio, rendendolo in definitiva inutile ai fini per cui sarebbe stato necessario.
Esistono inoltre altri parametri strettamente correlati all’appropriatezza, che vanno considerati assieme ad essa e possono contribuire a qualificarla: l’efficacia, l’efficienza, l’equità, la necessità clinica, la variabilità della pratica clinico-assistenziale, organizzativa e geografico-territoriale.
Le “evidenze disponibili” danno conto dell’utilità o meno dell’intervento o della procedura, ed ove sussistano evidenze di beneficio questi vengono definiti “raccomandati” per quella specifica fattispecie.
Il “punto di vista dell’assistito” assume grande importanza, in quanto la soddisfazione delle sue aspettative in termini di salute è un parametro non secondario che va pure messo in conto.
Ancora, sono da valutare i “valori sociali” che riflettono l’opinione comune corrente e influiscono sulla percezione dei bisogni assistenziali.
Negli anni ’80 l’organizzazione statunitense RAND (Research and Development), specializzata nelle analisi di sistemi, fra cui quelli riguardanti il welfare, in collaborazione con l’UCLA (University of California, Los Angeles), stabilì una definizione di appropriatezza che fino a tutt’oggi è stata la più ampiamente usata a livello internazionale:
“Una procedura è appropriata se il beneficio atteso (ad esempio aumento aspettativa di vita, sollievo del dolore, riduzione dell’ansia, migliore capacità funzionale) supera le eventuali conseguenze negative (ad esempio mortalità, morbosità, ansia, dolore, tempo lavorativo perso) con un margine sufficientemente ampio, tale da ritenere che valga la pena effettuarla. È invece inappropriata quando il rischio è maggiore rispetto ai benefici attesi”.
Tale definizione non è tuttavia più aderente alla realtà attuale, in quanto non tiene conto di un importantissimo parametro che è emerso nel tempo in tutti i sistemi di welfare, minacciandone la stabilità: il problema dei costi, sia in termini di denaro, che in termini di tempo od, in generale, di risorse.
Al giorno d’oggi pertanto una definizione più applicabile potrebbe essere la seguente: “configurano appropriatezza i risultati di un processo decisionale che assicura il massimo beneficio netto per la salute, nell’ambito delle risorse che la Società rende disponibili”.
Nella tabella riassuntiva riportata di seguito, tratta da “Manuale di formazione per il governo clinico- Appropriatezza” del Dipartimento della Programmazione e dell’Ordinamento del Servizio Sanitario Nazionale- Direzione Generale della Programmazione Sanitaria (Ufficio III ex D.G.PROGS) vengono sintetizzate le 12 principali definizioni di “appropriatezza” in sanità, che si sono susseguite dal 1984 in poi, con indicazione degli elementi chiave di ciascuna definizione.
Un altro problema da affrontare sta nel fatto che il confine fra utile ed inutile non sempre si presenta netto e distinto, bensì dipende da una serie di condizioni complesse, che devono essere valutate all’interno del contesto, sia professionale medico (dal punto di vista clinico ed organizzativo) che individuale e sociale dell’assistito.
Il Manzoni osservava saggiamente (Promessi Sposi, Capitolo I) che “la ragione ed il torto non si dividon mai con un taglio così netto che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro”.
Analogamente due bioeticisti statunitensi, Virginia Ashby Sharpe e Alan Ira Faden, affermano nel loro saggio “Medical harm. Historical, conceptual and ethical dimensions of iatrogenic illness” (1998) che trattando di appropriatezza nel sistema sanitario non si può considerare solo un costrutto dicotomico (appropriato/inappropriato), ma esiste sempre un continuo di situazioni a differente intensità di appropriatezza, e complementare grado di inappropriatezza.
Ancora più complessa è l’analisi dell’appropriatezza considerata non sulla singola procedura, ma sul ricovero ospedaliero, il cui riferimento è subordinato al vigente sistema dei DRG (Diagnosis Related Groups), ed al sistema secondo il quale vengono elaborati (in funzione di Diagnosi Principale, Diagnosi Secondarie, Intervento Chirurgico, Procedure, Età del ricoverato, Durata della degenza, Modalità di dimissione).
Va sottolineato che il cosiddetto “ricovero inappropriato” (DRG 469, 470), come quelli definiti “ad alto rischio di inappropriatezza” (contenuti nel DPCM 29 novembre 2001, allegato 2C e successive modificazioni ed integrazioni) derivano da una valutazione ex-post, ottenuta cioè dopo la dimissione dell’assistito. Ciò significa che a tale punto gli elementi che portano al risultato ottenuto dal ricovero sono disponibili ed analizzabili a bocce ferme, mentre nell’immediatezza delle fasi che portano al ricovero dell’assistito questi sono ancora delle incognite, sulle quali è possibile ipotizzare, ma che tuttavia essendo previsioni e non certezze comportano un’innegabile alea di rischio.
Un ulteriore argomento che si associa inevitabilmente a quello dei ricoveri inappropriati è rappresentato dalla “medicina difensiva”, ovverosia da quell’atteggiamento per cui il medico, onde evitare di essere accusato di aver omesso di richiedere qualche esame od accertamento in fase di diagnosi, richiede a tutti gli assistiti esami e procedure in sovrabbondanza.
Tale linea di condotta, oltre che censurabile professionalmente, appare solo apparentemente prudenziale, ma si rivela in effetti assai sconsiderata: l’eccesso di richieste non mirate e giustificate allontana inevitabilmente l’attenzione dai problemi di salute, che anziché essere messi a fuoco vengono sommersi da una mole di risultati e referti, la cui acquisizione e lettura consuma risorse e comporta oneri ingiustificati, oltre a ritardare quegli accertamenti che, essendo appunto appropriati, sarebbero da porre in atto immediatamente.

Studio/FontePaeseElementi chiave della definizioneProspettiva
Woodward et al. (1984)USAEffetti positivi attesi per il paziente.Paziente
Hopkins (1993)UKMaggiore probabilità di ottenere gli esiti di salute attesi dal singolo paziente.
Accettabilità delle modalità d’intervento da parte del paziente. Scelta dell’intervento appropriato coinvolgendo il paziente e tenendo conto non solo degli esiti di salute ma anche dei rischi.
Deve tenere conto delle risorse disponibili, del contesto sociale e culturale.Paziente,
Sistema sanitario,
Società
Sharpe et al. (1996)USABenefici clinici attesi per il paziente.
Rapporto costi-benefici tale da consentire l’erogazione dei servizi in uno (specifico) contesto di risorse limitate.Paziente,
Società
Zanetti et al. (1996)ItaliaAccettabilità e pertinenza rispetto a persone, circostanze e luogo, conoscenza.Paziente,
Sistema sanitario,
Società