EYE DOCTOR al Congresso nazionale della SOI – terza parte

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parte 3


Carlo Cagini
Direttore Clinica Oculistica - Azienda ospedaliera di Perugia
Professore associato di Malattie dell’apparato visivo - Università di Perugia

Cataratta nei migranti

La cataratta è responsabile del 48% dei casi di cecità nel mondo, rappresentando quindi in assoluto la prima causa di perdita della vista. Inoltre negli stadi meno avanzati la cataratta costituisce un grave handicap visivo, e si stima che sia responsabile nel mondo del 33% dei casi di deficit visivo moderato e severo (Global Burden of Disease, Injuries and Risk FactorsStudy, World Health Organization). La World Health Organization stima che nel 2010 fossero presenti nel mondo 10.8 milioni di persone cieche per cataratta e che, mantenendo l’attuale trend, nel 2025 le persone cieche per cataratta saranno 40 milioni (Wang W et al. Cataract surgical rate and socioeconomics: a global study. Clinical and Epidemiologic Research 2016).
Il problema “cataratta” nel mondo è tale che la WHO ha promosso il progetto “VISION 2020: the Right to Sight”, il quale prevede che “… per eliminare la cecità prevenibile entro l‘anno 2020 sono necessari oltre 30 milioni di interventi di cataratta l’anno al mondo … “.
La cecità per cataratta chiaramente non è distribuita in maniera uniforme nei vari continenti: il 90% dei ciechi per cataratta risiede in Paesi a basso e medio reddito e con scarsa organizzazione sanitaria. Inoltre esiste un rapporto lineare tra numero di interventi di cataratta eseguiti e reddito pro capite. Tale numero è infatti molto variabile: in Olanda, Francia e Stati Uniti il tasso di interventi per cataratta è circa di 6.000 per milione di abitanti/anno, mentre nei Paesi a basso reddito questo tasso è oscilla fra i 500 e i 2.000 interventi per milione di abitanti/anno.
Nel mondo esistono dei forti e costanti flussi migratori per cui milioni di persone si spostano dalle proprie sedi di residenza in zone considerate più appetibili per le migliori opportunità lavorative e condizioni di vita. A volte i migranti sono attirati in alcune zone anche nella speranza di una migliore assistenza sanitaria che non possono trovare nelle loro regioni di residenza.
La cataratta è spesso più frequente e precoce in queste popolazioni. Vi è una crescente evidenza che uno stato generale di cattiva salute, nonché l’esposizione a fattori di rischio aumentino il rischio di malattie croniche e di cataratta. È stato anche ipotizzato che una maggiore esposizione a fattori di rischio come la luce ultravioletta, la cattiva alimentazione, frequenti episodi di disidratazione, siano responsabili della maggior incidenza di cataratta e della sua precoce comparsa nei paesi in via di sviluppo rispetto ai paesi industrializzati. Esistono evidenze secondo cui in queste popolazioni coloro che sviluppano la cataratta senile sono interessati da tassi di mortalità più alti rispetto a chi non presenta opacità del cristallino.
In uno studio condotto nel 2013 su 3.400 immigrati indiani e residenti a Singapore (The Singapore Indian Eye Study) è stato evidenziato un alto tasso di chirurgia della cataratta in questa comunità, pari a circa il 10%. Nella stessa popolazione, la percentuale di pazienti che ottenevano dall’intervento una acuità visiva massima pari o inferiore a 4/10 era pari a circa l’11%. Questo risultato funzionale era legato a co-morbilità presenti prima dell’intervento, come la retinopatia diabetica o la degenerazione maculare senile. Spesso il paziente emigrato è infatti un paziente con pluri-patologie, a volte non diagnosticate o non trattate in modo adeguato, spesso con complicanze già evidenti. Esistono quindi delle difficoltà aggiuntive nel trattamento di questa tipologia di pazienti affetti da cataratta. È necessario un corretto inquadramento del paziente e le anamnesi sono spesso incerte ed incomplete. Spesso ci si trova di fronte a cataratte evolute, complicate, congenite o traumatiche ed è spesso difficile formulare una corretta pianificazione chirurgica. La prognosi è quindi spesso peggiore rispetto alla norma.
Tutto ciò ha come conseguenza un sovraccarico sul sistema sanitario ed inevitabilmente questa tipologia di paziente, per la gravità delle sue condizioni, tende spesso trovarsi in cima alle liste di attesa. Questo fatto ha creato problemi in alcuni Paesi dove sono nati dei movimenti di opinione e delle campagne di stampa contrarie ad un eccessivo impiego di risorse sanitarie pubbliche destinate alle popolazioni migranti piuttosto che ai cittadini autoctoni.
In Italia il numero di stranieri residenti nel dicembre 2015 era di 5.026.153, e l’ISTAT prevede che nel 2065 gli stranieri saranno 17.9 milioni. Nel 2013 circa il 30% degli immigrati proveniva da Paesi europei non comunitari, mentre un altro 30% proveniva da Paesi del continente africano. Come risulta dai dati ISTAT, una parte consistente della popolazione immigrata ha una età superiore ai 50 anni, soprattutto di sesso femminile. Nell’Ospedale regionale di Perugia, la percentuale di pazienti non italiani che viene ricoverato ogni anno è di poco inferiore al 10%, oscillando fra l’8.4% del 2010 al 9.7% del 2015. Anche nei reparti di Oculistica si ritrovano percentuali analoghe di pazienti stranieri. È evidente quindi che i flussi migratori da Paesi con scarsa organizzazione sanitaria costituiranno sempre più un importante impegno per i paesi ospitanti.


Rita Mencucci con la collaborazione della dr.ssa Alice Bitossi
Dirigente medico Clinica Oculistica Università degli studi di Firenze

DMEK vs DSAEK:
i risultati

Le grande rivoluzione copernicana in tema di trapianti di cornea è rappresentata dall’avvento, approssimativamente nell’ultimo decennio, di tecniche selettive, denominate “lamellari”, che consentono la sostituzione dei soli strati corneali effettivamente compromessi, preservando quelli funzionalmente integri. Questo ci ha permesso di trattare in modo appunto selettivo tutte quelle affezioni del complesso membrana di Descemet-endotelio, mediante la tecnica denominata “cheratoplastica posteriore”. Occorre però fare una ulteriore distinzione.
La cheratoplastica lamellare posteriore o endocheratoplastica consiste nella rimozione del solo strato “membrana di Descemet-endotelio” con innesto di un sottile lembo di stroma ed endotelio nella tecnica DSAEK (Descemet Stripping Automated Endothelial Keratoplasty) o di sola membrana di Descemet-endotelio nella più recente DMEK (Descemet Membrane Endothelial Keratoplasty). Queste tecniche confrontate con la PK presentano tutti i vantaggi di una chirurgia meno invasiva e più mirata, consentendo un più rapido recupero dell’acuità visiva, un risultato refrattivo migliore ed una integrità tettonica superiore.
La DMEK è quindi una tecnica relativamente recente e con una curva di apprendimento piuttosto ripida in relazione alla difficoltà nel maneggiare lembi veramente sottili di poche decine di micron.
D’altra parte si può postulare una superiorità della tecnica DMEK sulla DSAEK basata su diversi punti quali la sicurezza, il recupero visivo, la conservazione delle proprietà ottiche corneali ed il ripristino dell’integrità anatomica della cornea.
La superiorità in termini di sicurezza della tecnica DMEK potrebbe essere legata alla riduzione degli episodi di rigetto a distanza di 2 anni dalla cheratoplastica e sostenuta dalle seguenti percentuali: DMEK 0.7%, DSAEK 9% e PK 17%. A fronte di questo, tuttavia, assistiamo ad una maggiore percentuale di re-bubbling, varia (dal 70% al 3-6%) nei vari reports scientifici ma generalmente più alta rispetto a quella della DSAEK (DMEK, Review Ang M. BJO 2016).

occhio
Il dato più interessante è quello in relazione alla acuità visiva. Infatti possiamo rilevare come 6 mesi dopo la chirurgia abbiamo una acuità visiva maggiore od uguale a 20\40 nel 95% dei pazienti sottoposti a DMEK, contro il 43% dei pazienti sottoposti a DSAEK e maggiore od uguale a 20\25 nel 50% dei pazienti sottoposti a DMEK rispetto al 6% dei pazienti sottoposti a DSAEK. Inoltre è emerso che i pazienti operati ad entrambi gli occhi, mediante due tecniche chirurgiche diverse, preferiscono la qualità della visione dell’occhio sottoposto a chirurgia DMEK (DMEK, Review Ang M. BJO 2016; Busin M, Ophthalmology 2016; Philipps, Cornea 2016) ed anche i nostri casi comprovano questo intrigante risultato. Questa migliore qualità visiva viene comprovata anche dai risultati aberrometrici (Rudolph et al., Ophthalmology. 2012).
Per quanto riguarda la perdita di cellule endoteliali si ha un forte calo della densità cellulare nella DMEK nei primi 6 mesi post operatori, seguito da un decremento di circa il 7% ogni anno; il follow up a 5 anni ha messo in evidenza la seguente perdita percentuale di cellule endoteliali: 39% post DMEK, 53% post DSAEK e 70% post PK (DMEK, Review Ang M. BJO 2016).
Infine, solo la DMEK è in grado di consentire un ripristino completo dell’integrità anatomica corneale, essendo l’unico intervento nel quale viene sostituita esattamente la parte rimossa.
Nonostante queste brillanti prospettive, è assolutamente preferibile eseguire una DMEK in occhi con segmento anteriore normale. Non è pertanto indicata nei casi in cui lo stroma corneale è compromesso (cicatrici, haze, bolle corneali) e non c’è una perfetta visibilità della camera anteriore. Inoltre la gestione del sottilissimo lembo DMEK può essere assai problematica nei pazienti afachici. Altre controindicazioni sono le anomalie iridee, quali IFIS, sinechie irido-corneali e atrofia iridea.


Pierangela Rubino
Ambulatorio delle Malattie Infiammatorie ed Autoimmuni Oculari
Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma

Fattori di rischio per la disfunzione lacrimale

La Sindrome da Disfunzione Lacrimale o LDS (Lacrimal Dysfunction Syndrome) è definita dal DEWS (Dry Eye Workshop) come “una malattia multifattoriale delle lacrime e della superficie oculare che causa sintomi di discomfort, disturbi visivi, instabilità del film lacrimale con potenziale danno sulla superficie oculare accompagnata da una aumento dell’osmolarità del film lacrimale e dell’infiammazione della superficie oculare”.
I pazienti affetti da LDS presentano una ridotta qualità della visione che ha un notevole impatto sulla qualità di vita (Qol); infatti il paziente con LDS non riesce a svolgere le normali attività quotidiane come la guida notturna, la lettura, il lavoro al PC, non riesce a guardare la televisione e tutto questo si riflette sulla sua produttività lavorativa.
Le stime della prevalenza della LDS vanno dal 10% al 20% della popolazione adulta, e questa prevalenza è in continuo aumento.
Siamo abituati a parlare comunemente di Dry-Eye, occhio secco, ma in realtà dovremmo parlare di disfunzione del sistema della superficie oculare perché tutta la superficie è coinvolta nella patologia dalle palpebre con le ghiandole del Meibomio, alle ghiandole lacrimali principali ed accessorie, al film lacrimale, agli epiteli corneale e congiuntivale, alla giunzione muco-epidermica, al limbus.
Il sistema della superficie oculare è regolato dai sistemi endocrino, immunitario, nervoso e dalle diverse molecole che vi giungono tramite il torrente circolatorio. L’alterazione a carico di una componente di questo complesso sistema, che è dinamico, ne interrompe l’omeostasi e può innescare un insieme di meccanismi a cascata, che se non interrotti, possono automantenersi.
I pazienti più frequentemente colpiti sono prevalentemente le donne tra i 40-60 anni.
All’aumentare dell’età si osserva una progressiva atrofizzazione delle ghiandole lacrimali e conseguentemente una riduzione della produzione delle lacrime.
Studi clinici hanno dimostrato che circa il 20% delle donne nel post-menopausa soffre di occhio secco. Il trattamento sostitutivo con soli estrogeni aumenta la prevalenza di occhio secco del 9,05%.
Tuttavia ci sono numerosi fattori predisponenti oltre al sesso e all’età, come il tipo di attività lavorativa e l’ambiente lavorativo. Infatti i videoterminalisti o comunque coloro che durante la loro attività sono costretti, per una maggiore attenzione, a tenere gli occhi aperti presentano una maggiore evaporazione delle lacrime per la riduzione dell’ammiccamento. Gli ambienti poco umidificati, sia con eccessivo sistema di riscaldamento o di condizionamento, il vento possono favorire l’insorgenza di dry-eye o peggiorarne i sintomi perché anche queste condizioni favoriscono l’evaporazione delle lacrime.
Altri pazienti a rischio sono quelli con cheratocongiuntivite allergica, i portatori di lenti a contatto, i pazienti in trattamento farmacologico cronico con colliri, soprattutto se con conservanti, come per esempio i pazienti glaucomatosi, i pazienti con pregresse infezioni, quelli con blefariti e Meibomiti e i pazienti sottoposti a chirurgia sia del segmento anteriore che posteriore.
Lo stile di vita dei pazienti e le diete poco equilibrate possono causare un deficit di apporto vitaminico, in particolare di Vitamina A, o un deficit di A. Grassi Omega 3 con una maggiore predisposizione a LDS.
Altri fattori di rischio possono essere i farmaci sistemici come i diuretici, i beta bloccanti, gli antistaminici, gli inibitori della pompa protonica (anti-H1), gli ansiolitici.
La chemioterapia, la radioterapia e la Graft Versus Host Disease (GVHD) sono altri fattori di rischio.
Alcune patologie autoimmuni come la S. di Sjogren, primaria o secondaria ad artrite reumatoide o a LES, la sclerodermia, le connettiviti, la colangite stenosante e la cirrosi biliare primitiva sono caratterizzate da LDS.
I sintomi sono numerosi e spesso riferiti in modo confuso. Il paziente lamenta sensazione di bruciore, sensazione di sabbia negli occhi, fotofobia, prurito, senso di affaticamento visivo e talvolta dolore.
I sintomi sono distribuiti in modo diverso durante l’arco della giornata, inoltre i portatori di LAC preferiscono tenere gli occhi aperti, invece i pazienti con blefarite preferiscono tenere gli occhi chiusi.
È proprio in alcune particolari condizioni ambientali, come quelle prive di umidità, che la ghiandola lacrimale non riesce a produrre una quantità di lacrime sufficiente per supplire un’aumentata richiesta, che si sviluppa l’iperosmolarità.
Studi clinici hanno dimostrato che l’aumento dell’evaporazione del film lacrimale causa un’iperosmolarità del film lacrimale, questo a sua volta si associa ad una riduzione della produzione del film lacrimale stesso e di conseguenza ad una riduzione del suo tempo di rottura (BUT).
L’iperosmolarità causa un aumento di concentrazioni di molecole tossiche sulla superficie oculare che possono causare danno a carico degli epiteli congiuntivali e corneali.