La scelta dell’anestesia da parte del chirurgo oculista

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Il chirurgo oculista deve concordare
con l’anestesista le scelte inerenti il regime
di ricovero e il tipo di anestesia per pazienti ad elevato rischio e deve chiedere al collega una costante presenza in sala operatoria

(nota a Corte di Cassazione, quarta sezione penale, sentenza n. 1832/2015, dep. 16/01/2015)

L’oculista è tenuto a concordare con il collega anestesista una scelta meditata sul percorso anestesiologico da seguire in relazione ai pazienti che presentano un elevato rischio, in quanto occorre valutare insieme le possibili interferenze e implicazioni dell’intervento chirurgico da effettuare sulle complessive condizioni cliniche dell’assistito.
Entrambi, infatti, assumono una posizione di garanzia rispetto alla salute del paziente e, quindi, sia l’oculista che l’anestesista devono verificare la correttezza del percorso assistenziale, con particolare riferimento al tipo di ricovero (se in day surgery ovvero se in regime normale) e alla natura dell’anestesia (se loco-regionale o generale).
In presenza di un paziente con malattie sistemiche invalidanti e, quindi, rientrante nel rischio anestesiologico ASA III, l’oculista deve richiedere all’anestesista di non allontanarsi dalla sala operatoria durante l’intervento chirurgico perché solo la costante presenza dell’anestesista, deputato al controllo dei parametri vitali del paziente, consente di porre tempestivamente rimedio ai primi sintomi di eventuale sofferenza cardiaca.
Sussiste la corresponsabilità penale per omicidio colposo dell’oculista e dell’anestesista (artt. 110 e 589 del codice penale) qualora il paziente venga impropriamente indirizzato ad un percorso di day surgery per un intervento di vitrectomia e durante l’operazione evidenzi sintomi di sofferenza cardiaca che, non adeguatamente e tempestivamente affrontati a causa della mancata costante presenza dell’anestesista in sala operatoria, evolvano in un arresto cardiocircolatorio che poi conduce al decesso l’assistito.
Nella fattispecie, infatti, ricorre una responsabilità da équipe che riguarda sia la fase preoperatoria che quella relativa all’operazione chirurgica e coinvolge sia l’oculista che l’anestesista.
Non è possibile, invero, invocare utilmente il principio dell’affidamento nella correttezza dell’altrui operato qualora entrambi i professionisti siano venuti meno ai loro doveri di diligenza, perizia e prudenza, mettendo a rischio il bene vita del paziente.
Questi importanti principi sono stati affermati dalla Corte di Cassazione nella sentenza oggetto di questo commento che ha esaminato un caso relativo ad un intervento chirurgico di vitrectomia eseguito da un oculista in regime di day surgery con anestesia loco-regionale nei confronti di un paziente il cui rischio anestesiologico, secondo l’ipotesi dell’accusa, non era stato correttamente valutato.

anestesia

Il caso oggetto del giudizio e le decisioni dei giudici nei tre gradi del processo

Un paziente ricoverato in regime di day surgery per sottoporsi ad un intervento di vitrectomia con anestesia locale eseguita con farmaci infiltrati intorno all’occhio, decede durante questa operazione in seguito all’insorgenza di fenomeni di aritmia cardiaca e di instabilità emodinamica, seguiti da un arresto cardiocircolatorio, episodi diagnosticati tardivamente e, quindi, non affrontati tempestivamente, con conseguente anossia, coma atossico e poi, a distanza di tempo, evento mortale.
A carico dell’oculista e dell’anestesista viene posto l’addebito di avere, con il loro comportamento, causato la morte del paziente per avere colposamente deciso il tipo di ricovero e la natura dell’anestesia senza considerare le condizioni cliniche del paziente che, per l’accusa, è stato erroneamente classificato in classe di rischio ASA II invece che ASA III, classe quest’ultima che avrebbe imposto il ricovero in regime ordinario.
Il Tribunale ritiene entrambi i medici colpevoli del delitto di concorso in omicidio colposo e li condanna alla pena di giustizia con una sentenza che viene confermata in appello.
La Corte d’Appello, nel respingere le impugnazioni proposte dai due imputati, richiama l’esito della perizia medico-legale che ha ritenuto provata l’esistenza del nesso di causalità tra la condotta colposa dell’oculista e dell’anestesista, consistita nella scelta di un percorso anestesiologico non sufficiente a tutelare un ammalato con condizioni cliniche generali compromesse anche dalla presenza di diabete e dal trattamento dialitico in corso, e il decesso dell’assistito.
In sostanza i rimproveri di colpa contestati agli imputati riguardano errori concernenti la fase preoperatoria (non appropriata valutazione del rischio anestesiologico, errato ricovero in regime di day surgery, non corretta scelta del tipo di anestesia da praticare) e la fase operatoria per la mancata costante presenza dell’anestesista che si è allontanato dalla sala operatoria sottovalutando i rischi connessi alle condizioni del paziente.
Entrambi gli imputati ricorrono in cassazione, ma la Suprema Corte, pur dichiarando estinto per prescrizione il delitto, ha respinto le loro impugnazioni ai fini civili affermando i principi di diritto sopra riassunti.
L’oculista, in particolare, ha contestato di essere responsabile delle allegate errate scelte anestesiologiche, invocando il c.d. “principio di affidamento” in base al quale ha confidato che il collega anestesista avesse correttamente classificato il rischio del paziente e il tipo di ricovero necessario, nonché la natura dell’anestesia da effettuare.
La sua tesi è che si tratta di eventuali errori non evidenti e settoriali, propri dell’anestesista, non rilevabili e non emendabili dall’oculista che, quindi, non può essere chiamato a risponderne.
Inoltre, essendo concentrato ad operare con l’ausilio del microscopio, con luce solo sul campo operatorio, non poteva accorgersi del contestato allontanamento del collega.
La risposta della Corte di Cassazione a queste pur ragionevoli obiezioni tese a sottolineare l’applicazione piuttosto forzata dei principi in tema di responsabilità d’équipe, non è stata positiva avendo ritenuto corretta la motivazione della sentenza impugnata che ha affermato che nella fattispecie il chirurgo avrebbe dovuto concorrere alle scelte anestesiologiche, verificandone la correttezza.
La Suprema Corte, inoltre, ha ribadito che l’oculista avrebbe dovuto pretendere che il collega non si allontanasse dalla sala operatoria, tenuto anche conto del fatto che il paziente era stato male sin dall’inizio dell’intervento.
Dagli atti emerge infatti che il paziente, oltre ad essere in condizioni generali scadenti, presentava a distanza di solo mezz’ora dall’inizio dell’intervento valori glicemici (320) assolutamente controindicati, circostanza che imponeva la presenza in sala dell’anestesista.
I giudici di secondo grado hanno invece affermato che l’anestesista tornò in sala operatoria quando fu chiamato dalle infermiere in quanto il monitor aveva dato l’allarme relativo alla desaturazione e, quindi, le condizioni del paziente erano diventate critiche.
La Cassazione, infine, ha respinto i motivi di impugnazione attinenti al nesso di causalità tra le condotte colpose accertate e l’evento mortale, ritenendo che il giudice d’appello con adeguata e convincente motivazione ha aderito alle conclusioni sul punto dei periti che avevano escluso l’esistenza di altre cause alternative.

FACCIAMO Il PUNTO

Il caso in discussione, pur nella sua specificità, presenta interessanti profili sul piano giuridico e medico legale in quanto nessun addebito viene posto a carico dell’oculista in relazione all’intervento di vitrectomia, giudicato eseguito perfettamente.
Il chirurgo, infatti, è stato chiamato a rispondere, insieme al collega, solo delle improprie scelte anestesiologiche e del fatto che l’anestesista non era presente in sala nel momento in cui le condizioni del paziente sono divenute critiche, così ritardando il suo intervento che, se eseguito tempestivamente, avrebbe evitato il decesso.
La Suprema Corte, adottando una linea piuttosto rigorosa in materia di responsabilità d’équipe, ha voluto sottolineare che esiste un dovere di collaborazione tra tutti i professionisti che, a vario titolo e con varie competenze e potestà, intervengono nella gestione di un intervento chirurgico rivolto alla salvaguardia della salute della persona assistita e che, quindi, ciascuno dei professionisti coinvolti deve agire in modo attento, prudente, diligente e, anche, critico, concordando le relative scelte attraverso una complessiva valutazione dei rischi cui può ragionevolmente andare incontro l’assistito.