Mario Stirpe

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Mario Stirpe

Presidente dell’IRCSS Fondazione G.B. Bietti per lo Studio e la Ricerca in Oftalmologia

Professore, ha mosso i primi passi nella scuola del Prof. Bietti, cosa ricorda di quegli anni?

Credo che la nostra generazione sia stata fortunata avendo avuto la possibilità di trascorrere la prima parte della vita in un’epoca di grande entusiasmo durante la quale non sono mancati grandi esempi. Le scuole di medicina e le strutture ospedaliere erano governate dai cosiddetti baroni, non pochi dei quali dotati di un grande carisma. Molti tra noi mal sopportavano una condizione ritenuta di sudditanza, ma a nessuno sarebbe dovuto sfuggire che questi stessi personaggi assicuravano a tutti gli allievi, con soluzioni diverse, un futuro sicuro.
La mia scelta verso la medicina era stata motivata dall’ammirazione verso un grande padre, un clinico ed umanista che ha avuto un ruolo importante nel lavoro di convincimento esercitato su Pio XII per il cambiamento dell’Ordinamento della Chiesa sull’uso della morfina nei malati terminali. La scelta dell’oculistica è venuta poi dalla necessità di differenziarmi da un padre troppo noto e che comunque continuavo a guardare come ad un esempio che non avrei mai voluto tradire. Durante gli anni di specializzazione non riuscivo ad accettare la necessità di una enucleazione bilaterale per i bambini colpiti da retinoblastoma in ambo gli occhi. Avevo letto i primi risultati riportati da Stallard sull’uso dei contenitori CO60 per la terapia conservativa. Chiesi al Prof. Bietti di trasferirmi a Londra per un breve periodo, ed egli, nonostante il regolamento che obbligava a rimanere in sede durante la specializzazione, accettò con entusiasmo. Stallard era un uomo fantastico, un lord che girava Londra in bicicletta; mi raccontava della sua passione per il podismo e solo più tardi, con l’edizione del film “Momenti di gloria” ho compreso che aveva fatto parte della squadra podistica che aveva ispirato l’opera cinematografica. Durante il mio soggiorno in Londra ho anche potuto osservare quanto è mancato alla nostra categoria medica. In quegli anni il governo inglese aveva varato la riforma della sanità senza ascoltare la categoria medica. I medici uscirono in blocco dagli ospedali. Lo spettacolo di reparti governati da giovani indiani o pachistani era impressionante, ma questo stato di cose non durò a lungo perché le categorie mediche vennero presto richiamate dal governo per varare insieme una nuova riforma. Ho pensato spesso che questa coerenza è mancata in Italia nella nostra categoria quando la politica si è progressivamente appropriata delle strutture precedentemente governate da grandi maestri e tecnici illuminati.

Ha avuto la fortuna di essere tra i primi a lavorare nel campo della vitrectomia. Quale è stata la spinta iniziale?

Terminata la scuola di specializzazione avevo profuso tutti i miei sforzi per ottenere il più rapidamente possibile la libera docenza ed ero particolarmente fiero di essere riuscito a presentarmi all’età, allora inusuale, di 28 anni.
Seguivo il Prof. Bietti in congressi internazionali ed aveva destato in me grande interesse un lungo dibattito tra Schepens, autorità massima nel campo della retina, e Kesner, un uomo apparentemente molto riservato che faceva parte del gruppo che Norton stava raccogliendo in Miami. Schepens con una autorità che non ammetteva discussione enunciava, a proposito del vitreo, il principio del “noli me tangere”, Kesner contestata con decisione questo principio.
Il mio interesse era dovuto al fatto che io avevo già avuto qualche esperienza in proposito: Benedetto Strampelli che mi degnava di una inusuale simpatia ed aveva motivi di riconoscenza verso mio padre mi invitava con insistenza ad assistere ai suoi interventi di odontocheratoprotesi. Ogni volta mi convincevo di più che non avrei mai praticato quell’intervento particolarmente truce nella fase di rimozione del dente e dei tessuti circostanti che Strampelli praticava personalmente.
Mi aveva tuttavia colpito il fatto che, dopo la rimozione del cristallino Strampelli rimuoveva abbondantemente il vitreo, e quando io chiedevo se non vi fossero state complicazioni mi rispondeva che le complicazioni vi sarebbero state se il vitreo non fosse stato rimosso. In quegli anni la complicazione più temuta nell’intervento di rimozione intracapsulare della cataratta era la perdita di vitreo durante l’intervento. Questa era preannunciata da una spinta posteriore molto forte. Il vitreo fuoriuscito trascinava l’iride che, nonostante ogni sforzo per liberarla, si retraeva nel periodo postoperatorio verso l’alto dando luogo ad un glaucoma secondario. Ricordando le affermazioni di Strampelli, quando durante l’estrazione della cataratta si manifestava una spinta posteriore, praticavo rapidamente una iridectomia ad ore 12 e pungevo il vitreo lasciandolo liberamente fuoriuscire attraverso l’iridectomia. L’iride non veniva così interessata e dopo l’estrazione della cataratta la pupilla si restringeva bene con l’azione della pilocarpina. Non avevo più avuto nessuna complicazione e questo mi aveva definitivamente convinto che Strampelli era nel giusto.
Era il 1968 e Kesner per la prima volta diede seguito alla sua idea rimuovendo open sky il vitreo opaco dall’occhio di un soggetto affetto da amiloidosi che riacquistò la vista. Era il primo successo al mondo. Il Prof. Bietti, sempre aggiornato su quanto avveniva nel mondo, commentava con ironia lo scontro verbale avvenuto precedentemente tra Kesner e Schepens, ed io iniziai i miei tentativi sulle vitreoretinopatie secondarie a distacco di retina con intervento open sky, tentativi per lo più seguiti da insuccesso. Il successo ottenuto in un solo occhio era stato considerato dal Prof. Bietti casuale, ma io continuavo i miei tentativi.

Quali sono state le circostanze che l’hanno portata ad avvicinarsi a Robert Machemer ed al suo gruppo?

Il 1968 sconvolgendo l’ordinamento delle università Italiane aveva offerto alla politica l’occasione di appropriarsi dell’amministrazione di strutture prima governate da grandi tecnici. Mio padre perse la vita nel policlinico esaminando i pazienti con apparecchiature radiologiche ormai fuori uso in mancanza degli esami non eseguiti a causa degli scioperi. Si prospettava per le università un lungo periodo scuro. Nel 1971 il Prof. Bietti fu invitato negli Usa a tenere la Proctor Lecture. Il Professore non aveva perso l’abitudine di visitare gli istituti più vicini al luogo del suo impegno. Aveva avuto un lungo rapporto con il padre di Robert Machemer, un chirurgo tedesco dedicato particolarmente al distacco di retina. Quando Robert seppe della presenza del Prof. Bietti andò ad incontrarlo e gli mostrò i progressi della vitrectomia ad occhio chiuso da lui varata con l’aiuto tecnico di Jean Marie Parail.
Di ritorno in Italia mi riferì dell’incontro concludendo: “Ho qualche dubbio sull’espansione della vitrectomia, tuttavia se un metodo potrà aver successo sarà quello di Machemer e non quello che tu stai praticando”.
L’unico successo ottenuto mi aveva convinto a perseverare nella tecnica intrapresa, ma dopo qualche mese il Prof. Bietti mi mandò a chiamare; mi mostrò una lettera di Robert Machemer con il quale mi disse di aver parlato a mia insaputa proponendo un mio trasferimento. Machemer era entusiasta di acquisire un altro membro nel gruppo che stava riunendo. Il Prof. Bietti mi diede tre mesi di tempo per prepararmi. Forse in quel momento seguii l’indicazione del mio maestro più per l’esigenza di allontanarmi dal luogo dove aveva perso ingiustamente la vita mio padre che per una convinzione professionale. Più tardi Robert Machemer ,in una lettura dedicata agli anni eroici della vitrectomia, ricordava l’immediato interesse del Prof. Bietti giunto, anche se casualmente, tra i primi al Bascom Palmer. “Prof. Bietti was one of the early visitor to our clinic. I was impressed that a man of his age would take part in what was at the time still an unknown, controversial and non evaluated technique. He should further interest by sending his pupil Mario Stirpe to Miami...”

Qual è stato il primo approccio con il Bascom Palmer e cosa ricorda di quell’istituto in quell’epoca? Quali gli sviluppi di quell’esperienza?

L’impostazione del Bascom Palmer era diversa da quella dei nostri istituti universitari. Lì era privilegiata una maggiore organizzazione tecnologica, mentre non sfuggiva dalla nostra parte una maggiore cultura generale. Diversamente dagli altri membri, Robert non era aperto ad una amicizia immediata, ma il legame che si è creato tra lui e me negli anni è stato tra i più solidi.
Norton aveva aperto le camere operatorie dell’istituto anche a professionisti non appartenenti alla struttura e vi era quindi l’occasione di incontrare e discutere con personaggi diversi ma comunque qualificati; tra questi Jaffe. Tra i primi amici residenti vi erano George Blankenship, Mark Blumenkranz, Tom Aaberg, John Clarkson. I meeting frequentemente organizzati ci tenevano in rapporto continuo con altri brillanti cultori della materia come Ron Michels, Jack Coleman, Steve Ryan, personaggi con i quali avevo presto stretto una solida amicizia che mi portava a frequentare i loro istituti tanto che più tardi fui aggregato alla facoltà del John Hopkins per i corsi di Continuing Education. Altri eccellenti colleghi più giovani come Stanley Chang, Sandy Brucker, Don D’Amico ed altri si univano progressivamente al gruppo che divenne numeroso quando Machemer passato alla Duke University riunì in Vail anche i più brillanti chirurghi che progressivamente si erano formati in Europa. La materia era evoluta e ci eravamo resi conto che la tecnica chirurgica non era servita solo a risolvere complicazioni fino a quel momento non approcciabili, ma ci apriva anche alla comprensione della patologenesi di forme complicate come le proliferazioni fibrovascolari della malattia diabetica, le proliferazioni post traumatiche, eccetera. Grandi patologi come Richard Green ci soccorrevano nell’interpretazione.
Norton aveva costituito un eccezionale esempio organizzativo che si è rivelato per me insegnamento prezioso quando più tardi mi sono cimentato con la costituzione di una Fondazione dotata di riconoscimento giuridico e di un IRCCS di rilevanza nazionale. Norman Gass era il nostro riferimento, sempre aperto a discutere i problemi più complessi. Mi sono sentito particolarmente onorato quando nel 2011 la Retina Society mi ha invitato a tenere la Lettura in suo onore. Nel 1978 con Robert Machemer e Ron Michels abbiamo iniziato la preparazione del Congresso Internazionale sulla Retina che si è svolto a Roma nel 1980. La scomparsa del Prof. Bietti era recente e Robert tenne una straordinaria Lettura in suo onore. Il congresso richiamò come uditori numerosi chirurghi retinici internazionali non ancora pienamente convinti della indispensabilità di questa chirurgia. Tra questi ricordo Relya Zivojnovic che fino a quel momento, seguendo gli insegnamenti di John Scott, usava il metodo della introduzione dell’olio di silicone nella cavità vitreale senza rimozione del vitreo nei casi complicati. Noi non avevamo ancora adottato l’olio di silicone. Relya provò allora a sposare le due tecniche. Quando Robert Machemer, divenuto chairman del dipartimento del Duke, mi propose di dirigere un nuovo centro di oftalmologia che si sarebbe dedicato preferenzialmente alla chirurgia della retina, avvertii l’esigenza di stabilizzare maggiormente il mio lavoro.

Perché la Fondazione Bietti prima e l’IRCCS Fondazione Bietti poi? Cosa l’ha spinta a creare da zero prima una e poi l’altra istituzione?

La Regione Lazio mi aveva chiesto di organizzare e dirigere un Centro Regionale per le malattie della retina. In brevissimo tempo il centro raccoglieva una quantità enorme di pazienti, ma proprio la chirurgia per la quale era nato non poteva essere attuata per un conflitto, senza risoluzione, tra l’amministrazione della Regione Lazio stessa e il Commissario di Governo. Per soddisfare le richieste dei pazienti, chiesi alla Casa di Cura San Domenico, che dal 1945 si occupava di chirurgia oculare, di concedere gratuitamente due volte la settimana, in favore degli ammalati che si rivolgevano al Centro Regionale, la camera operatoria tempestivamente attrezzata per gli interventi di vitrectomia. Avrei compensato la clinica con la mia opera in suo favore. Questa situazione si protrasse per due anni finché, naufragato l’ultimo tentativo di accordo tra Regione e Commissario di Governo, lasciai la direzione del Centro.
Negli Stati Uniti avevo imparato il meccanismo delle Fondazioni che, viceversa, in Italia erano guardate con molto sospetto. Lo stesso Giulio Andreotti che ho incontrato per ragioni professionali mi esortava a non impegnarmi in fondazioni che, secondo la sua esperienza, in Italia nascevano per sottrarre fondi al fisco. Non seguii il consiglio, feci ugualmente una Fondazione usando inizialmente risorse provenienti dalla mia famiglia. Solo più tardi, ottenuto il riconoscimento giuridico, siamo stati legalizzati a ricevere fondi dall’industria e dallo Stato. Il Prof. Bucci aveva subito aderito alla mia iniziativa, ma sarebbe rimasto nella università. La scuola di specializzazione ci avrebbe tenuto in contatto con giovani che potevamo selezionare. Gli impegni della Fondazione in quegli anni sono stati essenzialmente rivolti alla organizzazione di un Congresso Internazionale con cadenza quadriennale, alla istituzione di borse di studio, ad attività di ricerca clinica e di base, alla preparazione clinica e chirurgica di oftalmologi che venivano riavviati verso le strutture pubbliche.
Avevo operato personaggi importanti della politica e negli anni ho continuato a ricevere richieste per presentarmi in liste politiche diverse. Non mi sono mai voluto impegnare conservando spirito critico verso tutti. Tutto questo era ben conosciuto da Giovanni Rama al quale mi legavano sentimenti di amicizia e grande stima. Giovanni nei primi anni ‘90 si era a lungo, ma senza successo, speso per mutare la legge dei trapianti che in Italia aveva messo addirittura fuori legge l’intervento. Era il 1993, la Democrazia Cristiana traballava, il futuro politico si prospettava incerto e Giovanni sapeva di trovarsi davanti all’ultima occasione per realizzare il suo disegno. Era convinto che il mio aiuto sarebbe stato importante e così, stimolando il mio orgoglio italiano, vinse facilmente la mia riluttanza ad occuparmi di un problema che era estraneo ai miei interessi. Franco Marini, allora Ministro del Lavoro, era convinto che la causa fosse giusta ma appurò che le correnti politiche erano per lo più contrarie, incluso il relatore della legge che pure faceva parte della sua corrente. Ritenne che l’unica strada fosse quella di provocare un’Audizione alla Camera. Con questa premessa io allertai tutte le testate giornalistiche. La stampa che si era più volte interessata all’argomento trovò giuste le nostre argomentazioni. All’Audizione la relazione di Giovanni venne ascoltata con evidente disinteresse da parte di molti; alla fine gli vennero fatte le congratulazioni per l’eccellente lavoro svolto ma nel contempo veniva dichiarato che nulla sarebbe cambiato perché il trapianto di cornea doveva seguire la legge generale dei trapianti. Avevo accumulato molta ira per il trattamento ipocrita subito da Giovanni; mi alzai urlando e mostrai una lista delle spese accumulate dalle regioni per inviare i malati all’estero e delle complicazioni riportate da alcuni pazienti. Dichiarai che fuori mi attendevano i giornalisti ai quali avrei denunciato queste mancanze e quanto era avvenuto in Aula. L’atteggiamento mutò per incanto. Si alzarono i rappresentanti di diversi partiti affermando che “non sapevano…”. Il relatore venne a sedere vicino a me dicendo: “Credo che lei abbia vinto la sua battaglia e da parte mia non vi sarà più opposizione”. Uscendo dal Parlamento sentivo uno strano fastidio sugli stinchi. Giovanni mi aveva riempito di calci cercando di attenuare la mia reazione. Successivamente, influenzato da Rama e da Stark, ho varato la Banca degli Occhi del Lazio.
Fino alla fine degli anni ‘90 le Fondazioni in medicina erano rare, poi d’improvviso tutti hanno scoperto il vantaggio di divenire Fondazione e molte università si sono adoperate per questo passaggio. Mi resi conto allora della necessità di cambiare il nostro stato, incominciai allora a lavorare per il passaggio della Fondazione ad Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico. Il passaggio era ricco di ostacoli soprattutto in rapporto alla mia idea di varare un patto con le istituzioni pubbliche nelle quali saremmo entrati ma autoamministrandoci. Il Ministro della Salute, Girolamo Sirchia, aveva molte perplessità perché riteneva che un IRCCS dovesse avere un Istituto di Cura proprio. In realtà noi avevamo il nostro Istituto per la ricerca ma non la sede di cura. Nonostante le sue riserve Sirchia varò l’Istituto che tuttavia doveva passare attraverso la conferenza Stato-Regioni in un momento politico particolarmente difficile. Contrariamente alle previsioni di tutti i tecnici, inclusi quelli del Ministero, il nostro Istituto fu approvato all’unanimità. Gli IRRCS ricevono fondi dal Ministero della Salute che esercita controlli biennali, possono ricevere aiuti da enti pubblici e privati. Un aiuto costante all’IRCCS Fondazione Bietti è venuto dalla Fondazione Roma oggi entrata nel Consiglio di Amministrazione. Con il consolidamento dell’IRCCS e la costituzione di una governance non ho più paura che il lavoro della mia vita possa finire con me stesso.

Come vorrebbe veder cambiare l’oculistica italiana nel breve e nel lungo termine?

Credo che l’oculistica italiana non sia oggi inferiore a quella di nessun altro paese. Ho assunto purtroppo molti impegni e questi non mi consentono di essere presente a molti congressi organizzati dai nostri oculisti. Lo vorrei di più perché mi appaga molto provare l’entusiasmo dei più giovani ed osservare la collegialità dei più maturi. In quei momenti provo molto risentimento verso lo Sato; quel risentimento che mi ha portato a cercare una soluzione di lavoro che non fosse direttamente condizionata da una pessima politica. La nostra materia, come tante altre della medicina italiana, è ben strutturata ma potrebbe esprimere di più se nel nostro Paese le risorse fossero più correttamente finalizzate.