Retinopatia da idrossiclorochina

Retinopatia da idrossiclorochina
Fig. 1 - Autofluorescenza del fundus di una paziente con retinopatia da idrossiclorochina in stadio avanzato. Si nota l’ipoautofluorescenza parafoveale che crea il caratteristico aspetto “a occhio di bue”.

La clorochina e il suo analogo idrossiclorochina sono due farmaci balzati recentemente agli onori della cronaca, sia scientifica che generale, in merito al loro possibile impiego nella terapia dei pazienti affetti da COVID-19.

Mentre diversi studi sono tuttora in corso per dimostrarne l’efficacia, diversi dubbi sono sorti da più parti circa il loro profilo di sicurezza.

In particolare, l’oculista gioca un ruolo fondamentale nella prevenzione di uno dei più pericolosi effetti avversi potenzialmente provocati dall’uso continuativo di questi farmaci, ovvero la retinopatia da antimalarici o “ad occhio di bue”.

Fig. 2 - SD-OCT della stessa paziente. Le frecce bianche indicano la perdita del segmento esterno dei fotorecettori e un danno dell’epitelio pigmentato retinico a livello parafoveale, mentre fovea e retina periferica sono risparmiate.

Idrossiclorochina

La clorochina fu sviluppata nel lontano 1939 ed era originariamente impiegata nel trattamento della malaria.

Complice lo sviluppo di resistenza da parte del Plasmodium falciparum, dagli anni ’60 l’idrossiclorochina, un derivato della clorochina, venne presto a sostituirsi al farmaco originale.

Oltre ad un miglior profilo di sicurezza, l’idrossiclorochina si dimostrò utile nel trattamento di numerose patologie di origine autoimmunitaria, soprattutto in ambito reumatologico.

L’azione immunomodulante avviene tramite diversi meccanismi: tra i più importanti, ricordiamo l’inibizione della produzione di INF-α, la modulazione della presentazione dell’antigene da parte dei linfociti T e l’induzione dell’apoptosi di determinati sottogruppi di cellule T.

Le controindicazioni attualmente descritte sono una nota ipersensibilità al composto, maculopatie preesistenti e stato di gravidanza. Il dosaggio delle compresse ad oggi disponibile in Italia è di 200 mg e la posologia giornaliera varia in relazione al peso del paziente e all’indicazione clinica.

Tradizionalmente il dosaggio massimo consentito è indicato nella misura di 5 mg/kg die e la durata della terapia, almeno per quanto riguarda il trattamento di patologie reumatologiche, non ha un limite massimo definito.

In aggiunta alle convenzionali indicazioni all’utilizzo di tali molecole, la recente epidemia di COVID-19 ha richiesto l’utilizzo di dosi nettamente superiori, al fine di contrastare l’imponente reazione immunitaria secondaria all’infezione virale.

Tra gli effetti avversi sistemici sono annoverati casi di ipoglicemia in pazienti diabetici che assumono ipoglicemizzanti, innalzamento degli indici di necrosi epatica e, raramente, soppressione midollare e debolezza muscolare.

Si tratta tuttavia di evenienze piuttosto rare, che sono considerate per la maggior parte reazioni idiosincrasiche. Particolare attenzione va però posta in casi di insufficienza renale e/o epatica, dal momento che rene e fegato rappresentano le principali vie di eliminazione del farmaco.

Retinopatia da idrossiclorochina

La clorochina e l’idrossiclorochina sono note da tempo agli oculisti per la loro tossicità retinica dopo un utilizzo prolungato.

Globalmente, la prevalenza generale di tale tossicità si attesta intorno al 7,5% dopo almeno 5 anni di terapia, e raggiunge il 20% dopo 20 anni di terapia. Nel dettaglio, la retinopatia si manifesta raramente al di sotto dei 10 anni di utilizzo del farmaco e a dosaggi inferiori ai 5 mg/kg die di idrossiclorochina, che sono raccomandati dall’American Academy of Ophthalmology.

I principali fattori di rischio per la retinopatia da clorochina e idrossiclorochina oggi conosciuti sono: dose e durata della terapia, insufficienza renale cronica, uso di tamoxifene, concomitanti o preesistenti patologie retiniche.

La clorochina, avendo tossicità maggiore dell’idrossiclorochina, necessita di dosaggi giornalieri ancora più bassi rispetto al suo analogo idrossilato. Non esistono studi specifici sulla tossicità della clorochina, tuttavia maggiore attenzione va posta in pazienti trattati con questo principio attivo.

La tossicità da clorochina e da idrossiclorochina si estrinseca a livello dei fotorecettori, portando alla degenerazione degli strati retinici esterni e delle cellule dell’epitelio pigmentato retinico.

Nella pratica clinica si apprezza pertanto una caratteristica maculopatia “ad occhio di bue”, aspetto legato alla presenza di un anello di depigmentazione parafoveale che risparmia un’isola foveale centrale.

L’acuità visiva è preservata fino agli stadi avanzati della malattia, quando anche la regione centrale risulta esserne progressivamente coinvolta.

Per questo motivo, in assenza di sintomi, tale retinopatia viene spesso diagnosticata tardivamente e, inoltre, può progredire nonostante la sospensione della terapia: si ritiene che ciò sia dovuto ad un eventuale accumulo del farmaco a livello retinico.

Considerando l’esordio tardivo della sintomatologia e l’assenza di evidenti alterazioni all’esame del fundus negli stadi precoci, si rende necessaria un’indagine approfondita con esami strumentali.

La tomografia a coerenza ottica (SD-OCT) suggerisce un danno retinico primariamente localizzato a livello della retina esterna e dei fotorecettori, con coinvolgimento solo successivo dell’epitelio pigmentato retinico.

Si apprezzano infatti anomalie parafoveali della retina esterna, con assottigliamento o perdita dello strato dei fotorecettori, dello strato dei nuclei esterno, dell’ellissoide e dell’epitelio pigmentato retinico.

Questi segni sono fortemente suggestivi di retinopatia da clorochina e idrossiclorochina. Inoltre, la distruzione focale, piuttosto che diffusa e progressiva, delle strutture esterne della retina, è un aspetto tipico della tossicità di questi farmaci.

I segmenti retinici interni, al contrario, non mostrano alterazioni nelle fasi iniziali della patologia.

L’autofluorescenza del fundus (FAF) evidenzia un aumento di segnale a livello parafoveale negli stadi iniziali della malattia, con successiva riduzione di segnale laddove la retinopatia progredisca fino alla degenerazione dell’epitelio pigmentato retinico.

Questa aumentata iperautofluorescenza nelle fasi iniziali precede le modificazioni apprezzabili con l’OCT.

La perimetria computerizzata mostra una riduzione della sensibilità parafoveale, con un danno precoce più frequentemente presente nella regione inferotemporale.

Il pattern 10-2 mostra un’elevata sensibilità a livello maculare, pertanto risulta di elezione nello screening di retinopatia da antimalarici.

L’elettroretinografia multifocale (mfERG), infine, viene considerata tutt’oggi il gold standard diagnostico della retinopatia da clorochina e derivati, vista l’elevata sensibilità e specificità. Essa identifica le aree di riduzione di sensibilità retinica allo stimolo luminoso; caratteristica è la riduzione di ampiezza del segnale tra i 2 e i 6 gradi di distanza dalla fovea.

La capacità diagnostica può essere migliorata con la comparazione delle ampiezze tra anelli di risposta attorno alla fovea, che mostra una caratteristica riduzione a livello dell’anello parafoveale.

Screening

La retinopatia da clorochina e idrossiclorochina provoca un danno non reversibile alle cellule retiniche, che può avanzare anche dopo la sospensione del farmaco se non si interviene precocemente.

Da qui il razionale dello screening dei pazienti in terapia cronica con questi farmaci: individuare iniziali segni di malattia prima dell’insorgenza di alterazioni tali da compromettere la visione in modo permanente.

L’American Academy of Ophthalmology e il Royal College of Ophthalmology hanno redatto, rispettivamente nel 2016 e nel 2018, delle linee guida per la gestione dello screening della retinopatia da idrossiclorochina.

Entrambe le società consigliano, per i pazienti per i quali è prevista una long-term therapy, una valutazione oftalmologica al baseline, preferibilmente entro 6 mesi dall’inizio della terapia, volta all’identificazione di eventuali patologie maculari o retiniche preesistenti che rappresentino un fattore di rischio aggiunto nello sviluppo della retinopatia.

Questa visita rappresenta inoltre un’opportunità per educare il paziente e motivarlo a sottoporsi ad uno screening approfondito.

In assenza di fattori di rischio (insufficienza renale, uso concomitante di tamoxifene, uso di clorochina, necessità di impiego di idrossiclorochina a una dose maggiore di 5 mg/kg die) il paziente verrà rivalutato dopo 5 anni dall’inizio della terapia con successivi screening annuali. Diversamente, in presenza di almeno uno dei fattori di rischio precedentemente nominati, lo screening sarà da subito a cadenza annuale.

Per quanto riguarda le metodologie di screening, le linee guida inglesi raccomandano l’esecuzione annuale di perimetria computerizzata 10-2 e SD-OCT+FAF.

In caso di positività di entrambi gli esami ad alterazioni caratteristiche, viene posta diagnosi definitiva di retinopatia da idrossiclorochina. In alternativa, la positività di uno solo di questi esami rende necessario un approfondimento diagnostico mediante mfERG.

Le linee guida americane differiscono da quelle inglesi nel relegare la FAF ad indagine di secondo livello, insieme all’mfERG, da effettuare nei soli casi dubbi dopo esecuzione di SD-OCT e campo visivo 10-2.

Entrambe le linee guida consigliano di interrompere al più presto la terapia con idrossiclorochina in caso di riscontro di segni di tossicità, ma non prima di averne discusso con il medico prescrittore e in accordo con il paziente.

Conclusioni

La retinopatia da idrossiclorochina rappresenta uno dei più importanti esempi di tossicità da farmaci con cui l’oculista si deve confrontare: la manifestazione clinica subdola, l’irreversibilità del danno retinico e la possibilità di un aggravamento della patologia anche dopo la sospensione della terapia sono problematiche che portano alla necessità di un corretto screening nei pazienti in terapia con questo farmaco.

La sua prevalenza rimane tuttavia bassa anche dopo diversi anni di terapia continuativa, specialmente se la dose giornaliera è ridotta.

Occorre sottolineare che l’interesse oculistico nei confronti della clorochina e derivate ha recentemente subito una impennata in considerazione di diversi trials attualmente in corso sull’utilizzo dell’idrossiclorochina nella terapia del COVID-19 che impiegano dosi giornaliere anche 4-5 volte maggiori di quelle precedentemente raccomandate dalle linee guida americane e inglesi, a fronte tuttavia di una ridotta durata di assunzione.

In una recente lettera all’American Journal of Ophthalmology, Michael F. Marmor (primo autore delle linee guida dell’American Academy of Ophthalmology per lo screening della retinopatia da idrossiclorochina) non ritiene necessario un programma di screening nei pazienti affetti da COVID-19 che abbiano assunto idrossiclorochina limitatamente al periodo necessario per trattare l’infezione da SARS-CoV-2.

Nonostante i pochi lavori tuttora presenti in letteratura, i dati concordano nel suggerire un buon profilo di sicurezza in terapie di breve durata anche in seguito all’uso di dosi elevate; ciononostante ulteriori studi sono necessari per poter confermare efficacia e sicurezza di tale terapia.

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