Mancanza di specifiche linee guida: come comportarsi?

A l fine di tutelare l’operatore sanitario nell’esercizio della propria attività, ospedaliera o libero professionale, la legge Gelli (l. n. 24/2017), all’art. 6, esclude la responsabilità professionale quando la condotta si realizza nel rispetto delle linee guida, adeguate al caso di specie e pubblicate sul sito dell’Istituto superiore di sanità. 

Non sempre, tuttavia, la situazione concreta che il professionista si trova ad affrontare rientra nella casistica regolamentata dalle sopraccitate linee guida oppure, quand’anche prevista, può presentare delle peculiarità tali da renderne inadeguata l’applicazione. Per evitare l’automatico configurarsi di una possibile ipotesi di colpa medica, ogni qualvolta si verifichino simili circostanze, il legislatore del 2017 ha previsto che l’operato del clinico non sia penalmente perseguibile, in assenza di appropriate linee guida, qualora conforme alle buone pratiche clinico-assistenziali.

In merito, la Suprema Corte ha precisato che “le linee guida differiscono notevolmente, sotto il profilo concettuale, prima ancora che tecnico-operativo, dalle buone pratiche clinico-assistenziali, sostanziandosi in raccomandazioni di comportamento clinico sviluppate attraverso un processo sistematico di elaborazione concettuale, volto a offrire indicazioni utili ai medici nel decidere quale sia il percorso diagnostico terapeutico più appropriato in specifiche circostanze cliniche” (1). Le linee guida, dunque, consistono «nell'indicazione di standards diagnostico-terapeutici conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica, a garanzia della salute del paziente e costituiscono il condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, e, quindi, si sostanziano in qualcosa di molto diverso da semplici buone pratiche clinico-assistenziali».  Queste ultime, infatti, si qualificano come semplici prassi consolidate, ritenute efficaci dalla comunità scientifica e, pertanto, ampiamente descritte e trattate in letteratura ovvero in opere di manualistica medica. 

Contestualizzando le più generiche previsioni normative contenute nell’art. 43 c.p., (che specifica cos’è l’elemento psicologico del reato differenziando il dolo dalla colpa) si osserva che la condotta del professionista sanitario risulta colposa - e quindi penalmente rilevante - quando disattende, per imprudenza, negligenza o imperizia dell’agente, l’osservanza delle regole che tutelano la salute del paziente. In tale contesto, le buone pratiche clinico-assistenziali rivestono un ruolo sussidiario nella valutazione dell’attività svolta dal professionista poiché assumono rilevanza giuridica solo e soltanto nel caso in cui la situazione in cui quest’ultimo si è trovato ad operare non sia già regolata da linee guida specifiche. 

La Suprema Corte ha posto a fondamento della condanna del professionista sanitario il mancato rispetto di riconosciute elementari regole cautelari, ritenute tali dalla buona prassi clinica, pur non formalizzate in specifiche linee guida nei termini indicati dalla legge Gelli.

In una recente sentenza (2) la Suprema Corte di Cassazione ha fatto luce su questo punto e, in particolare, si è espressa sulla possibilità di ravvisare l’elemento della colpa nella decisione di un medico del pronto soccorso di non rispettare l’ordine di priorità degli accertamenti diagnostici a cui occorreva sottoporre la paziente, successivamente deceduta. Nel caso di specie l’operatore sanitario non si è conformato alla prassi clinica che prevede la primaria esecuzione degli accertamenti «indispensabili per verificare la necessità di interventi eventualmente salvifici, posticipando gli altri, attraverso l'assegnazione di un diverso ordine di precedenza, che renda chiaro il percorso ed utile l'intervento». In assenza di specifiche linee guida che indichino, passo per passo, quale debba essere il corretto comportamento del clinico che prende in carico il paziente dopo il triage del pronto soccorso, la Consulta ha ritenuto violato l’articolo 6 della legge Gelli per il mancato rispetto di quella che nel corso del dibattimento penale i vari consulenti hanno indicato come buona prassi comunemente seguita in situazioni analoghe e, conseguentemente, punibile la non conforme scelta operata dal medico d’urgenza.

I giudici di legittimità non indicano con precisione la fonte a cui si rifà la summenzionata pratica clinico-assistenziale, bensì giustificano la propria decisione individuando in capo ai professionisti del settore della medicina d’urgenza il dovere, connaturato al contesto emergenziale in cui operano, di individuare il migliore approccio terapeutico per il paziente, nell’ottica di garantirne, prima di tutto, l’immediata sopravvivenza. La Suprema Corte ha quindi posto a fondamento della condanna del professionista sanitario il mancato rispetto di riconosciute elementari regole cautelari, ritenute tali dalla buona prassi clinica, pur non formalizzate in specifiche linee guida nei termini indicati dalla legge Gelli. 

Bibliografia

  1. Cass. penale, Sez. IV, 22 giugno 2018, n. 47748
  2. Cass. penale, Sez. IV, 13 gennaio 2021, n. 12144