La funzione dell’informazione nelle relazioni con il paziente

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relazioni con il paziente

Non sempre l’oculista è in grado, o vuole, o ha tempo, di fornire al proprio paziente una corretta informazione circa i rischi connessi ad una terapia o ad un intervento chirurgico.
Recentemente la 3° Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione, in un Sentenza (2177/2016) relativa ad un intervento di chirurgia refrattiva cui è seguita una regressione, ha ribadito che l’informazione non solo deve essere esaustiva, completa e dettagliata, ma specifica per quel caso e per quel determinato paziente.
Un depliant prestampato (il cosiddetto consenso informato), letto e firmato il giorno dell’intervento è paragonabile, per la Suprema Corte, all’acquisto di una giacca preconfezionata rispetto ad una giacca confezionata su misura.
Senza entrare per ora nel merito dell’argomento abbiamo chiesto all’avvocato e al magistrato un parere più specifico.

Il parere dell’Avvocato

La sentenza della Suprema Corte ribadisce ancora una volta, anche se ormai per giurisprudenza costante non rappresenta nulla di particolarmente innovativo, l’importanza di una corretta quanto esaustiva informazione che necessariamente deve essere fornita al paziente prima di sottoporlo ad intervento o comunque a trattamento sanitario.
In modo particolare questa statuizione censura il fatto che si possa ritenere correttamente e validamente informato un paziente con il solo fatto di avergli fornito prima di sottoporlo ad intervento chirurgico un depliant illustrativo dei vantaggi che quella determinata tecnica chirurgica gli avrebbe portato.
Depliant prestampato che evidentemente non può che enunciare, sia pure in modo chiaro ed esaustivo, le caratteristiche più comuni della valenza curativa dell’intervento proposto ma che ovviamente non è adattato “su misura” allo specifico caso di specie ed a quel determinato paziente.
In buona sostanza la Corte spiega che, volendo noi fare un paragone esemplificativo, la situazione è paragonabile ad acquistare una giacca preconfezionata in serie in un grande magazzino dove è solo possibile scegliere la taglia ed il modello oppure farsi fare un giacca su misura che, sia pure attenendosi allo stesso modello rappresentato nel grande magazzino, la mano del sarto confeziona nel pieno rispetto delle specifiche misure, fattezze ed eventuali difetti del soggetto che la commissiona.
È vero che la mano del chirurgo è stata accurata e si è ovviamente correttamente adattata allo specifico paziente, ma l’informazione fornita allo stesso con il solo depliant è invece paragonabile alla valutazione che si potrà fare nell’acquisto della giacca nel grande magazzino che si presenta preconfezionata su taglie adattabili al cliente medio.
Su tale presupposto la Corte ha chiaramente evidenziato e puntualizzato che, per ritenere il consenso fornito al paziente valido, il medico deve puntualmente fornire tutte le informazioni attinenti allo specifico caso, alla tecnica che si applicherà proprio a quelle caratteristiche della patologia presentata dal quel paziente. Informazione che sottintende un modulo di consenso personalizzato che ovviamente è qualcosa di più di quegli abituali moduli prestampati che per loro natura non possono che avere un carattere di spiegazione generica che come tale non viene ritenuta sufficiente.
Ma questo non basta perché le indicazioni da fornire devono rappresentare anche le eventuali problematiche che potranno presentarsi nel post intervento, anche a distanza di tempo, e pertanto queste vanno evidenziate senza trascurare di dare al paziente anche indicazioni in merito ad alternative non interventistiche che possono soddisfare le sue necessità (nel caso di specie di miglioramento del visus), come nella ipotesi del caso oggetto della sentenza in esame il fatto che l’utilizzo di occhiali avrebbe garantito, sia pure con un supporto anche “fastidioso” quali l’utilizzo delle lenti, analogo o quantomeno similare risultato.
Per ultimo rilevante è l’indicazione fornita dalla Corte in merito al fatto che come contropartita spetterà al paziente l’onere di provare, anche se si vuole solo con carattere presuntivo, il fatto che qualora gli fosse stata realmente fornita una valida informazione nei termini sopra richiamati e quindi comprensiva dei possibili effetti avversi, egli avrebbe verosimilmente rifiutato di sottoporsi all’intervento.

Renato Mantovani
Avvocato cassazionista del Foro di Milano

Il parere del Magistrato

Non sempre è chiara agli oculisti la funzione dell’informazione nella relazione con il paziente e dunque può essere utile sottolineare che informare correttamente sui rischi connessi ad una terapia ovvero ad un intervento chirurgico assume rilevanza sotto due profili, come evidenziato dalla Corte di Cassazione, terza sezione civile, nella recente sentenza n. 2177/2016.
Il primo profilo attiene alla salvaguardia del “diritto all’autodeterminazione” del paziente che solo se correttamente informato potrà esprimere la propria libera e consapevole volontà di accettare o meno la proposta di cura che proviene dal medico.
Nel caso in cui l’oculista dovesse ledere questo diritto, pur senza cagionare danni al diverso diritto alla salute del suo assistito, il paziente ha la possibilità di adire il giudice per ottenere un risarcimento del danno cosiddetto “non patrimoniale” subito per la lesione della sua libertà di essere adeguatamente informato per poi decidere se seguire o meno l’indicazione terapeutica proposta dall’oculista.
Il secondo profilo, invece, attiene alla salvaguardia del “diritto alla salute” e, quindi, riguarda la fattispecie nella quale il paziente, non ben informato dal medico, aderisce alla proposta terapeutica ricevuta e poi subisce, in seguito all’intervento praticato dall’oculista, una danno alla salute in conseguenza del verificarsi di un possibile effetto negativo dell’intervento (non dovuto ad un errore colposo commesso dal sanitario) che costituisce un rischio proprio della terapia effettuata, rischio del quale, peraltro, non era stato previamente reso edotto.
In quest’ultimo caso, come ricorda la Suprema Corte nella sentenza n. 2177/16, per potere ottenere il risarcimento del danno alla salute il paziente deve allegare e dare la prova (anche attraverso valide presunzioni) che, se fosse stato correttamente informato, non avrebbe acconsentito all’intervento.
In sostanza la giurisprudenza sul punto richiede che il paziente dia la prova del nesso di causalità tra l’omessa informazione e l’evento dannoso, perché nell’ipotesi in cui l’interessato avrebbe presumibilmente comunque accettato di sottoporsi all’intervento (trattandosi, in ipotesi, di terapia salvavita o comunque di intervento non elettivo, ma strettamente indicato a salvaguardia del bene salute) allora verrebbe a mancare l’efficacia causale dell’omessa informazione.
Il caso specificamente affrontato dalla Cassazione riguarda proprio una dedotta lesione del “diritto alla salute” quale conseguenza del verificarsi di un rischio di peggioramento delle condizioni del visus dopo un intervento chirurgico (di cheratomia radiale all’occhio ds e ritocco di un analogo intervento all’occhio sn precedentemente eseguito altrove) non oggetto di preventiva informazione, allegata come incompleta proprio in relazione al rischio realizzatosi.
Il giudice di secondo grado, investito della questione della completezza o meno dell’informazione fornita alla paziente prima di procedere a questo intervento, aveva peraltro escluso che la donna non fosse stata compiutamente informata, dopo avere esaminato il contenuto del depliant (redatto dall’oculista) consegnato all’interessata in precedenza.
La Suprema Corte, dopo avere affermato che il consenso rilasciato dall’interessata avrebbe dovuto essere “informato” in quanto espresso solo dopo avere ricevuto informazioni dettagliate dal medico (che sono tali se riguardano non solo la natura dell’atto medico o chirurgico, la sua portata ed estensione, i suoi rischi e i risultati realmente conseguibili, ma anche le possibili conseguenze negative), ha annullato la decisione del giudice d’appello perché non correttamente motivata in relazione alla ritenuta adeguatezza del depliant informativo consegnato alla paziente.
La Cassazione, inoltre, ha sottolineato che la completezza dell’informazione attiene a profili diversi dalla comprensibilità dell’informazione stessa, in quanto quest’ultima dipende dalle modalità con le quali viene fornita, modalità che devono tenere conto del livello culturale della paziente e delle conoscenze specifiche di cui l’interessata dispone.
La Suprema Corte, infine, ha affermato che il giudice d’appello non si era attenuto ai principi sopra esposti in relazione alla necessità di una informazione completa ed esauriente perché aveva dato valore a tal fine ad un depliant che non conteneva alcun riferimento alla possibilità di “regressione dell’effetto correttivo inizialmente ottenuto”, pur essendo questo evento negativo rilevante sul piano statistico anche in relazione ad un intervento che, secondo il CTU, era stato correttamente eseguito sul piano della tecnica chirurgica.
Nel caso di specie, infatti, vi era stata una conseguenza pregiudizievole in danno della paziente costituita da una “regressione del visus”, complicanza non indicata nel predetto depliant, con conseguente difetto di una corretta informazione.
La regressione del visus, infatti, è un evento diverso e opposto rispetto a quello indicato nell’opuscolo con riferimento alla possibile permanenza di un “residuo difetto visivo, seppure di molto inferiore a quello di partenza”.
Nel giudizio di rinvio, il nuovo giudice d’appello dovrà procedere ad una nuova e preliminare valutazione in ordine alla sussistenza o meno nel caso di specie di un consenso effettivamente espresso in modo consapevole dalla paziente, previa adeguata e completa informazione, e poi, qualora ritenesse che non sussiste nel caso di specie un consenso effettivamente “informato”, dovrà verificare se la paziente ha fornito la necessaria prova che non si sarebbe sottoposta all’intervento oculistico in oggetto qualora correttamente informata.
Quali insegnamenti trarre da questo caso 26giudiziario ?
Non devono essere utilizzati nell’attività professionale depliant informativi troppo generici o scritti male perché mancanti di elementi importanti in relazione soprattutto ai rischi di insuccesso ovvero di peggioramento della situazione del visus.
Occorre documentare sempre nel modo migliore il contenuto dell’informazione fornita e la situazione pregressa del paziente, circostanze rilevanti anche quando si discute di una responsabilità non fondata su una erronea esecuzione dell’intervento oculistico.

Sergio Fucci
Giurista e bioeticista, magistrato tributario, già consigliere presso la Corte d’Appello di Milano