La nuova comunicazione all’epoca del paziente (già) informato (dai social): questioni medico-legali

Il consenso informato o, per meglio dire, "consapevolmente prestato", giacché informato non è il consenso, ma deve esserlo il paziente che lo presta (Cass. Civ., n° 2847/2010) è assurto da “dettaglio” di secondaria importanza a caposaldo del rapporto medico-assistito.

Alla ormai storica diade, di impronta paternalistica, che vedeva il medico quale detentore di un potere decisionale pressoché assoluto in virtù delle sue conoscenze, si è giunti all’attuale - e paritaria - patient centered medicine, in cui il paziente si autodetermina, assumendo un ruolo proattivo nella relazione con il medico: è il paziente a decidere della propria salute, dopo essere stato compiutamente informato, ed è lui a concedere il proprio consenso o dissenso all’atto medico, senza il quale il professionista sanitario non può intervenire, se non in casi eccezionali (debitamente normati).

La Costituzione italiana in primis riconosce la libertà individuale in materia di trattamenti sanitari quale diritto non travalicabile, stabilendo, all’art. 32, che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge, finalizzate alla tutela della salute in quanto interesse della collettività (come recita il primo comma del medesimo articolo).

La Suprema Corte si è più volte espressa in merito alla sempre maggiore importanza dell’autodeterminazione del paziente, ribadendo che l’acquisizione del consenso informato del paziente costituisce legittimazione e fondamento dell’atto medico; pertanto, senza la preventiva acquisizione di tale consenso, qualsiasi intervento sanitario è, al di fuori dei casi di trattamenti sanitari per legge obbligatori o in cui ricorra uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche quando effettuato nell’interesse del paziente.

In tempi recenti (Cass. Civ., n° 11749/2018) è stata persino tipizzata una fattispecie di danno alla salute correlato alla violazione dell’obbligo informativo. La lesione del diritto all’autodeterminazione, in quanto diritto irretrattabile della persona, costituisce una fattispecie di danno risarcibile, a prescindere dalla correttezza tecnica dell’intervento medico praticato: una prestazione medica eseguita a regola d’arte, dalla quale però derivi un danno alla salute per via del manifestarsi di eventi avversi imprevedibili che non erano stati esaustivamente prospettati, comporta una lesione non soltanto del diritto all’autodeterminazione, ma anche del diritto alla salute causalmente collegata alla violazione del diritto all’informazione, poiché il paziente, se consapevole dell’eventualità di accadimento dell’evento avverso, avrebbe potuto decidere di non sottoporsi al trattamento sanitario.

In questa fattispecie, tuttavia, spetta al paziente dimostrare, anche presuntivamente, che se adeguatamente informato avrebbe rifiutato il trattamento sanitario.

La legge 219/17 (Norme in materia di consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento) è intervenuta a colmare un vero e proprio vuoto normativo inerente alle modalità di manifestazione delle volontà, quindi dell’esercizio del diritto all’autodeterminazione personale in ambito medico-sanitario della persona, relative a interventi di natura sanitaria che dovessero rivelarsi opportuni o necessari riguardo alla sua futura condizione clinica e di salute, ove essa non sia in grado di esprimere consapevolmente e in forma attuale la propria volontà in merito.

In ordine all’espressione di un consenso veramente consapevole, una corretta e compiuta informazione del paziente risulta essenziale; la legge, in tal senso, offre un interessante elemento di novità stabilendo che il tempo della comunicazione tra medico e paziente equivale a tempo di cura (art. 1, comma 8), equazione che compendia in sé l’essenza dell’approccio terapeutico di tipo patient-centered, promuovendo l’idea della cosiddetta medicina narrativa – intesa quale modalità di intervento clinico-assistenziale basata sulla comunicazione tra medico e paziente – quale valido strumento per l’instaurazione di un rapporto autenticamente comunicativo, il cui esito, a ben vedere, è dato dalla pianificazione condivisa del percorso terapeutico (“pianificazione condivisa delle cure”, come da testo dell’art. 5 della legge).

Il riconoscimento, per nulla scontato, del tempo di comunicazione tra medico e paziente come parte dell’iter clinico è quanto mai fondamentale nell’odierna era digitale, in cui sempre più persone cercano di produrre in prima istanza un'auto-diagnosi servendosi di dati reperiti in rete, e solo in un secondo momento si rivolgono al medico.

In quest’ottica il medico assume il ruolo essenziale di “guida” per il paziente, che va orientato e dotato di strumenti che lo aiutino a discernere le informazioni attendibili da quelle tendenziose e ad interpretare correttamente le informazioni appropriate, così da decidere della propria salute in piena consapevolezza.

Permane un interrogativo tutt’altro che irrilevante: il medico, che si trova a rapportarsi con pazienti (talora troppo e male) “informati”, confusi dalla sovrabbondanza di informazioni reperite sul web (non accompagnata da un altrettanto elevato livello qualitativo in termini di attendibilità scientifica delle fonti), quanto dovrebbe effettivamente informare il paziente? Può il medico operare una selezione delle informazioni da fornire ai propri assistiti, filtrandole attraverso il proprio sapere medico-scientifico? Oppure è tassativo esplicare ogni singola procedura medico-chirurgica nei minimi dettagli, elencando ogni possibile evento avverso, inclusi quelli statisticamente irrisori (con il rischio che il paziente rifiuti di sottoporsi all’esame/trattamento)?

Secondo un recente rigido orientamento giurisprudenziale, la seconda: il paziente che si sottopone a una procedura medica o chirurgica (tanto più se chirurgica) deve essere sempre messo al corrente dei possibili rischi derivanti dall'operazione, anche se sono minimi (Corte di Cassazione, sez. III civ., ordinanza n. 30852 del 29 novembre 2018).

Il consenso può dunque ritenersi davvero “informato” solo se vengono fornite al paziente informazioni dettagliate sulla prognosi della patologia e sulle reali prospettive in termini di qualità della vita, sui risultati concretamente conseguibili, su tutte le possibili conseguenze negative dell’intervento, su rischi e benefici di eventuali alternative terapeutiche e sulle conseguenze di un eventuale rifiuto al trattamento.

In questi anni la giurisprudenza si è mostrata persistentemente severa, richiedendosi che al paziente venisse fornita un’informazione davvero trasversale e completa, di cui dovrebbe far parte la eventuale concreta, magari carente, situazione ospedaliera, in rapporto alle dotazioni e alle attrezzature e al loro regolare funzionamento (Cass. Civ., n° 4540/2016), previsione che ha trovato solida sponda normativa nel disposto dell’Art. 4, comma 2, della Legge 24/17 (Legge Gelli-Bianco): trasparenza dei dati.

Grava dunque sul sanitario la responsabilità di veicolare tali informazioni in maniera corretta, utilizzando un linguaggio adeguato al livello culturale del paziente e assicurandosi che questi comprenda pienamente quanto necessario a maturare una decisione consapevole a prescindere dal suo livello di sapere.